Empatia

L’empatia, è la capacità di comprendere ciò che una persona sta provando, identificandosi nella situazione in cui essa versa. L’origine greca di tale parola ne spiega appieno il significato, poiché essa deriva dalla fusione della particella “en”, che vuol dire “dentro”, con “pathos”, che significa “sofferenza o sentimento” e perciò riesce a rappresentare in maniera perfetta l’immedesimazione di una persona all’interno di una realtà diversa dalla propria.

L’empatia, che è alla base della relazione Craniosacrale, diventa poi “compassione” quando si attiva in modalità concrete di aiuto, sostegno e dedizione.
Data la confusione esistente sulla terminologia abbiamo trovato una ricerca di  Giusi Venuti dell’ Università Ca’ Foscari Venezia, Lettere e Filosofia, dal titolo “Sapersi intendere. La questione dell’empatia nella consulenza filosofica” e che potete trovare integralmente qui https://www.academia.edu/22419448/Sapersi_intendere. ecco un editing del testo originario.

Empatia.

Affrontare il tema dell’empatia è sempre complicato per motivi che sono, allo stesso tempo, di ordine teorico e pratico. In qualunque modo la si intenda, l’empatia deve infatti essere praticata, altrimenti non è nulla. D’altra parte intenderla, secondo la tradizione romantica, come coglimento, immedesimazione e “fusione” di vissuti o confonderla con la compassione, la simpatia, il contagio emotivo, fa la differenza della pratica relazionale. 

…il pericolo è connesso proprio alla plurivocità di sensi che la parola ha assunto nel corso della sua storia, da Einfühlung (il cui primo uso è fatto risalire ad Herder) ad empathy (ad opera di Edward Titchener, un allievo inglese di Wilhelm Wundt) fino all’italiano empatia. I dizionari riconducono il tema alla sua origine greca: empatia non sarebbe altro che il calco di empàtheia. (“en”, che vuol dire “dentro”, con “pathos”, che significa “sofferenza o sentimento” ).

La somiglianza fonetica cela, però, un abisso semantico. Come se non bastasse il termine viene spesso usato come sinonimo della parola simpatia la quale, a sua volta, viene usata come sinonimo di compassione.  È così che in molti parlano di empatia senza sapere cosa effettivamente significhi. 

Empatia, simpatia, compassione: tutti sinonimi?

Probabilmente il primo passo da fare è recuperare una distinzione di tutti questi termini che vengono utilizzati come sinonimi ma che, in realtà, implicano delle disposizioni totalmente differenti.

Alcuni, infatti, intendono quel mettersi in sintonia come l’abilità tecnica di mettersi nei panni dell’altro, un’abilità che chi voglia, se non aiutare, quanto meno comunicare efficacemente, deve saper utilizzare. Altri nominano questa sintonia con il termine empatia e la definiscono come la “predisposizione” essenziale alla compassione, glissando quindi sullo specifico significato del termine.

Riferimenti agli studi di:

Warren Reich, tentando di delimitare i campi della simpatia, dell’empatia e della compassione ,  ritiene che la simpatia, come l’empatia, sia la capacità di capire e di condividere i sentimenti dell’altro, solo che l’empatia – in quanto capacità di mettersi nei panni dell’altro – lo fa in un modo più diretto e, al tempo stesso, più distaccato. 

Allora io mi chiedo: nel momento in cui si assume come possibile il fatto di mettersi nei panni dell’altro così che, vedendo il mondo con i suoi occhi, diventiamo capaci di condividerne (al pari della simpatia) le sue sofferenze, come si può, contemporaneamente, sostenere che questa condivisione è più distaccata? Come si può essere distaccati stando dentro?

L’esigenza di fare chiarezza, dimostrando come l’empatia abbia un che di oggettivo, di cui è invece mancante la simpatia, è alla base del lavoro di Robert Katz .

Quando empatizziamo, scrive Katz, focalizziamo, infatti, la nostra attenzione sui sentimenti e sulla situazione di un’altra persona, mentre quando simpatizziamo stabiliamo un parallelismo tra i nostri sentimenti e quelli dell’altro così che non siamo per nulla concentrati sulla realtà oggettiva e sul carattere personale della situazione dell’altro. In questo caso l’analogia prende il posto dell’attenzione e la comprensione dell’altro, perdendo di oggettività, risulta compromessa.  

L’empatia, come la simpatia, consiste di sentimenti e implica un coinvolgimento emotivo ma a differenza della simpatia non stabilisce quella similitudine che, generalmente, porta a chiedersi: che farei io se mi trovassi al suo posto? 

La continua contraddizione non fa altro che disorientarci rendendoci impossibile capire in che modo funzioni quest’empatia. Ci viene detto che consiste di attenzione. Ora ad-tensione significa, etimologicamente, tendere verso, aprirsi ad un significato. 

Allora, come conciliare questo atto originariamente accogliente, con quello che poi viene detto dell’empatia, che cioè consista in un entrare nella mente e nel vissuto altrui perdendo sé stessi? Viene ribadito come questa perdita sia solo un fatto temporaneo il cui fine sia quello di andare dentro per tirare fuori le esperienze altrui. Ma, il punto è: che significa andare dentro? Come ci si può annullare per poi riprendersi? Come posso pensare di vivere con distacco l’immersione nell’esperienza dell’altro? Immergersi, utilizzando appieno la metafora, significa, necessariamente, bagnarsi. 

Credo che i fraintendimenti e l’incapacità di stabilire cosa l’empatia sia – se un andare dentro, se una sorta di imitazione, se un coinvolgimento emotivo e via dicendo – dipendano, in buona parte dal fatto che la maggior parte degli studiosi, compresi quelli che si occupano di consulenza filosofica, fa riferimento a quella concezione dell’empatia che ci è stata tramandata da T. Lipps  e che implica un movimento, direi invasivo, del soggetto nei confronti dell’oggetto, mentre sconosce l’uso che i fenomenologi fanno del termine e che, a sua volta, rimanda al senso greco della parola. Em-pátheia significa infatti essere esposto, essere soggetto a … Un movimento, dunque, opposto rispetto a quello di cui abbiamo sino adesso trattato. Si tratta di un movimento dall’esterno dell’anima verso il suo interno. Per questo la particella “en”, qui, non sta in riferimento dinamico ad un altro Sé, non ha un senso proiettivo o fusionale nei confronti dell’anima altrui; significa piuttosto un rafforzativo della dimensione patetica che caratterizza la sensibilità psichica. 

C’è però un altro modo, come dicevo, di pensare e di praticare l’empatia ed è un modo che viene dalla tradizione fenomenologica. 

È, per Edith Stein, originario in quanto (come la percezione esterna) si presenta lì davanti a me ed è quindi qualcosa che, portandomi comunemente a dire “te lo leggo negli occhi”, io assimilo al vedere, ma non è originario in quanto al contenuto perché il dolore visto non è il mio, ma dell’altro. Viene così scardinata la logica occidentale secondo cui il vedere corrisponde al sapere. 

La Stein continua su questa strada dicendo che non sono io che vado dentro il vissuto, come se quel vissuto fosse un oggetto, ma è l’Oggetto/Soggetto con il quale entro in contatto, che mi attrae, mi impone di uscire dal mio luogo per recarmi, non dentro il dolore (o la gioia) come tale ma presso il Soggetto che lo sta, a suo modo, sperimentando. 

L’empatia è, quindi, un atto di radicale apertura – e non di intromissione – che noi facciamo nei confronti dell’altro nel momento in cui prendiamo coscienza della impossibilità di assimilare i nostri vissuti. Giungiamo così ad una vera e propria metastrofè. Nel discorso della Stein l’Ego costituente di stampo husserliano lascia il posto ad un Io patico. In questo senso em-patia non è andare dentro, ma un sentire ed un accogliere dal di dentro qualcosa che viene da fuori.

Sta avvenendo infatti un rovesciamento nel mio abituale rivolgermi a ciò che fuori di me. 

Che cosa significa questo,? Cosa comporta questo atto originariamente offerente e accogliente? In cosa si risolve l’empatia se non nel provare lo stesso sentimento? Cos’è se non il sapere-capire ciò che l’altro sente? 

In realtà empatia significa allargare la propria esperienza, renderla capace di accogliere la gioia o il dolore altrui, mantenendo la distinzione tra se e l’altro.

In realtà empatia significa allargare la propria esperienza, renderla capace di accogliere la gioia o il dolore altrui, mantenendo la distinzione tra se e l’altro. Può accadere, spesso accade, che in un secondo tempo avvenga una partecipazione emotiva nella forma del gioire o del soffrire insieme, ma può avvenire solo se c’è stata empatia, se l’orizzonte della mia esperienza si è ampliato, se sono stato disposto ad uscire fuori dal mio luogo per incontrare l’altro in un luogo che non corrisponde alla sua casa  (otterrei così un falso sapere perché, immedesimandomi, resterei sempre presso di me) ma che si profila come una terra che non è di nessuno: la terra della relazione. 

L’empatia non va cercata percorrendo l’impossibile strada della fusione, l’empatia non è un idillio, ma è un dramma che scatta nel momento in cui due corpi e due vissuti assolutamente differenti escono dalla solitudine delle loro monadi mossi dal desiderio di incontrarsi e comunicare le loro esperienze. È proprio in questa uscita da sé che il rischio di confondersi con l’altro, di dominarlo come se fosse un oggetto o, all’opposto, di ascoltarlo mantenendo, però, una distanza tale da divenire indifferenza, diventa altissimo. L’empatia è “rendersi conto” dell’ineludibilità di questo rischio e sorvegliarlo, poiché è solo nel rischio che si dà autentica relazione. 

L’empatia è, allo stesso tempo, un atto cognitivo ed emotivo che si realizza e prende senso nel momento in cui viene praticato. Ha tutta l’intensità del sentire, non è una forma di conoscenza intellettuale. Il suo valore cognitivo è il rendersi conto dell’essere in relazione, comprensione – questa – che significa viversi tutti come non autosufficienti, come limitati e vulnerabili e, al tempo stesso, come aperti a qualcosa d’altro.

“C’è un con essere con l’altro che non prende il posto, né lo sostituisce nella sua situazione o nel suo compito, né lo alleggerisce elle sue responsabilità, ma lo presuppone con riguardo, per non togliergli la cura, per non sottrarlo cioè a se stesso, al suo Esserci più proprio, anzi per ridargli tutto questo, questo aver-cura non è dominante, ma liberante. Questo modo dell’aver-cura è quello dell’autenticità, perchè in esso l’Esserci con cui la cura è aver cura, può pervenire a se stesso, deve diventare il suo Esserci più proprio e diventa a partire da se stesso il suo Esserci più proprio ed autentico. In questo aver cura, l’altro non è primariamente a partire dal mondo di cui ci si prende cura, ma solo a partire da lui stesso”. M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, trad. it. di M. Ugazio, Mursia, 1986, p. 148.

Heidegger: “Cura autentica non è prendere il posto di, ma condurre l’altro verso la propria cura.”

Risorse: Un video illustrativo
https://www.youtube.com/watch?v=nSVyLBsQO0A
Altre fonti:
http://www.stateofmind.it/2015/07/empatia/